Appunti di una giornata romagnola
di Francesco Falcone
Sono un testimone della Romagna come pochi altri possono giurare di esserlo: non mi sento romagnolo ma amo la Romagna, le sue colline, le sue intimità più brusche, le sue contraddizioni più drammatiche, le sue bestemmie più colorite, i suoi ‘peggiori bar di Caracas’ e il Maraffone, il Partito Repubblicano e i suoi circoli. Da anni amo anche i suoi vini più autentici, vini per cui conta la mia reazione dopo averli bevuti e invece contano meno le premesse prima di berli. E le mie reazioni sono sempre più emozionate.
Andiamo imparando, anche in Romagna, che il vino buono deve avere il volto del luogo e le viscere dell’uomo; perché questo accada c’è bisogno di una viticoltura pulita e di un’enologia fiera, etica, trasparente, rispettosa, personale. Il vino che nasce in un unico luogo, dovrebbe essere un vino unico. Ogni vino che sia rispettato nelle sue origini non può che essere diverso da tutti gli altri, al di là del suo valore e del suo talento. La natura, mutevole e imprevedibile, forma uve sempre diverse che il pensiero e la mano del vignaiolo artigiano condurranno in direzione di vini diversi. Tale diversità, fedele ai luoghi, alle uve, all’andamento stagionale e alle scelte umane è ciò che distingue un’azienda realmente artigiana da una di tipo industriale (non per forza industriale nei numeri, ma nell’atteggiamento).
L’azienda realmente artigiana ama la distinzione e pertanto sceglie un’enologia dolce e trasparente, laddove l’azienda di tipo industriale ricorre alla correzione per ottenere una certa perfezione formale, per rientrare in determinati standard di mercato. Da molti decenni l’evoluzione tecnologica ha messo a disposizione degli enologi parecchi mezzi per ovviare alle peculiarità, alle variabilità naturali e agli imprevisti di una vendemmia, con il risultato di limitare parecchio le differenze, di appiattire le complessità e di normalizzare l’offerta.
I più sensibili vignaioli di Romagna hanno scelto la strada tracciata dai più bravi artigiani del pianeta, rinunciando all’ostinata ricerca della coerenza e della presunta perfezione formale per vincolare il vino al suo ambiente, alla sua viticoltura, alla sua specifica annata (anche alla più difficile delle annate). In tal modo il vino ha una connotazione più agricola che mercantile, più umana che tecnologica, frutto di una vera relazione tra terra e uomo. È ciò che più ci piace, che più eccita i nostri pensieri e i nostri sensi, e finalmente anche in Romagna questo sta accadendo con frequenza.
L’ultima generazione di vignaioli romagnoli, non strettamente intesa in senso anagrafico, ha saputo fare tesoro della storia enologica del nostro Paese per arrivare a descrivere in modo più originale e definito la buona vocazione enologica della regione. Oggi più che mai è possibile per gli appassionati bevitori arrivare a conoscere attraverso il bicchiere le tante geografie del vino romagnolo; oggi più che mai in Romagna si beve benissimo!
Lo sguardo di chi fa vino artigiano è quello di Faye Dunaway e Johnny Depp, che scapigliati svolazzano su un trabiccolo volante, nel visionario “Arizona Dream” di Emir Kusturica. Il senso del fare vino artigiano sta tutto lì, in quella scena da vertigini, nel Depp che sperimenta per la prima volta il volo, disegnando pindarici viaggi onirici nel cielo. La vendemmia di chi fa vino artigiano è così: ogni volta un bagliore, ogni volta una rivelazione, ogni volta un grattacapo, ogni volta un mondo nuovo a cui prendere le misure. Un mondo che nasce e rinasce dalla notte dei tempi e che quando rinasce è sempre diverso, complesso, incerto, stimolante. L’esperienza è importante, anzi decisiva, poiché la memoria è la bitta da ormeggio a cui attraccare la nave quando il mare è in tempesta: ma l’esperienza non scongiura la burrasca e le onde anomale che possono travolgere il più smaliziato dei naviganti. Accettarlo è un passo decisivo in direzione dell’unicità, della diversità: ancora prima delle sottozone, contano le buone intenzioni.
Quanto detto finora non significa che in Romagna nel passato non si producessero buoni vini, quello che mancava era un indirizzo di sistema e una piena diffusione della qualità, così come lacunosa era la varietà delle voci sul palco: ve ne erano alcune particolarmente ambiziose, ma mancava il pieno accordo con i singoli distretti.
La Romagna deve molto al contributo di enologi e agronomi toscani e piemontesi (non si dimenticano i maestri), ma il cambio di passo attuale è il frutto di una nuova interpretazione di ciò che si è imparato nel recente passato, cercando di non ripetere gli errori del recente passato. In passato si cercava il vino assoluto, oggi si predilige ciò che è relativo. Finalmente.
Se i vini di Romagna sono cresciuti, è perché gli assaggiatori sono cresciuti, a tutti i livelli, professionali e amatoriali: il risveglio del terroir coincide con il risveglio del gusto. Si deve crescere come assaggiatori anche per limitare la vergognosa speculazione economica su molti dei vini più noti, in ogni luogo del pianeta: il prezzo non è un verdetto, è un elemento. Ed è un elemento che l’assaggiatore potrà criticare, denunciare o quantomeno non accettare, se sarà in grado di farlo.
Se oggi un assaggiatore sceglierà la Romagna per il suo essere outsider, periferia che innova, regione di buoni vini a prezzi democratici, lo farà perché non si lascerà influenzare dai luoghi comuni, perché sarà un bravo assaggiatore. Il bravo assaggiatore usa la curiosità prima della necessità, la compassione prima della competenza, l’accoglienza come qualità specifica: accogliere significa dare una possibilità a tutti, usare l’empatia, saper ascoltare, aprirsi alla diversità. La Romagna negli ultimi anni sta dimostrando di poter produrre buoni vini con buona diffusione e con una varietà di stili prima sconosciuta.
Le sottozone non siano pertanto un punto di arrivo, ma un punto di partenza; non siano solo uno strumento di propaganda, ma un mezzo di conoscenza. Le sottozone non sono solo un fatto geologico, contano anche altre cose: la morfologia, l’orografia, l’altitudine, la presenza di montagne o del mare e della pianura. E contano soprattutto le donne e gli uomini, vignaiole e vignaioli: perché è sempre dalla dimensione umana che dobbiamo partire per comprendere il mondo in cui viviamo.